Sorvolarla, percorrerla virtualmente, da centinaia di chilometri di
distanza, con l’aspettativa di ciò che nella città eterna può accoglierti, e
ritrovarti ad averne quasi paura… poi raggiungerla in macchina, di sera,
frettolosamente, e pensare ad uno di quei piccoli centri di passaggio lungo
arterie provinciali, forse un po’ sporchi, trascurati, abituati al passaggio ma
sempre diffidenti… giungerci poi trascinando un bagaglio per rimanerci, per
mettere per qualche tempo radici, e sgranare gli occhi per i sacchi di
immondizia ammonticchiati e i manifesti di protesta scritti a mano contro
l’amministrazione municipale assente, indifferente…ed infine, giorno dopo
giorno, percorrerla, respirarla, averla nel cuore e nella mente come casa, pur
da straniera, avvertire una sorta di abbraccio che dalla solitudine ti attrae
verso la scoperta di un mistero che pulsa, pullula, sorride, e suggerisce memorie,
speranze, attese, forse anche fratture. Quale memoria, quale frattura conserva
e rende sempre attuale il murales dipinto sulla facciata cieca della palazzina
che si affaccia sulla piazza...una piazza di cui ci si dimentica il nome
ufficiale, perché per tenere viva, insieme alla memoria, l’indignazione e la
passione qui la gente ha deciso di ribattezzarla “Piazza Ciro Principessa”. Un
nome, ed un volto che veglia ancora sulle vivaci riunioni di quartiere,
indipendenti e combattive, così come le madonnine delle edicole: da un lato e
dall’altro della piazza, scorre la strada, e lungo di essa il bisogno di
riconoscersi, di radicarsi, di curare se stessi insieme a lei, di proteggerla e
rivendicare il diritto a viverla, insieme, a condividerla. Da un paese sembra
provenire l’aria quasi di famiglia che si respira, nel cuore di uno dei
quartieri più caotici di una grande metropoli: con i suoi silenzi nelle ore
notturne e del primo pomeriggio, interrotti dallo sferragliare dei treni sui
binari poco distanti e dal tuonare degli aerei che in modo surreale volano
troppo bassi, dal canto del gallo e degli uccellini. Di un paese è la
sensazione quando lo sguardo si perde rincorrendo i gatti che saltano sornioni
di tetto in tetto, che sostano lungo la via nelle loro regali e e fiere pose,
davanti alle case spesso ad un piano, raramente più alte di due piani, con i
loro terrazzini e i panni stesi, i giochi dei bambini abbandonati in attesa,
piene di voci che invadono la strada, voci che intrecciano spensieratezza ad irrequietezza,
e ricordi di paesi lontani che qui giungono per ricominciare. Voci, ed odori,
che abitano l'aria, dalla trattoria romana in cui campeggiano bandiere del Che
all’imperante soffritto della cucina bangladese e cinese che ti accoglie
all’angolo, mentre nel via vai, ora lento, ora più frenetico odori e voci si
concentrano a lungo, insieme ai volti ed ai gesti che li rendono movimento e
storia, davanti al tabacchino, al bar, dove l’anziana signora la mattina fa
colazione in vestaglia e si siede, serena, ad aspettare qualcuno, o la sera
davanti a Chourmo, l’enoteca che da Marsiglia prende il suo nome: “per finirci
dentro non c’era bisogno, come secoli fa, di aver ucciso il padre o la madre.
No, oggi basta essere giovani, immigrato o non..lo scopo di Chourmo era che la
gente si incontrasse, si immischiasse, degli affari degli altri e viceversa”. E
la gente si immischia negli affari che diventano di tutti quando c’è da
rivendicare l’area pubblica che il comune ha voluto trasformare in un
parcheggio e che la musica e le cene organizzate di tanto in tanto riaprono
alla comunità, come accade, sempre e ancora in piazza Ciro Principessa.
“Esisteva uno spirito Chourmo. Non eri di un quartiere, di una città. Eri
Chourmo, nella stessa galera, a remare. Per uscirne fuori insieme”. O per
rimanerci, dentro, anche quando così apparentemente “diversi”, e “stranieri”,
insieme.
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