lunedì 28 aprile 2014

Monica Ranieri - Via dei Savorgnan - Certosa

Sorvolarla, percorrerla virtualmente, da centinaia di chilometri di distanza, con l’aspettativa di ciò che nella città eterna può accoglierti, e ritrovarti ad averne quasi paura… poi raggiungerla in macchina, di sera, frettolosamente, e pensare ad uno di quei piccoli centri di passaggio lungo arterie provinciali, forse un po’ sporchi, trascurati, abituati al passaggio ma sempre diffidenti… giungerci poi trascinando un bagaglio per rimanerci, per mettere per qualche tempo radici, e sgranare gli occhi per i sacchi di immondizia ammonticchiati e i manifesti di protesta scritti a mano contro l’amministrazione municipale assente, indifferente…ed infine, giorno dopo giorno, percorrerla, respirarla, averla nel cuore e nella mente come casa, pur da straniera, avvertire una sorta di abbraccio che dalla solitudine ti attrae verso la scoperta di un mistero che pulsa, pullula, sorride, e suggerisce memorie, speranze, attese, forse anche fratture. Quale memoria, quale frattura conserva e rende sempre attuale il murales dipinto sulla facciata cieca della palazzina che si affaccia sulla piazza...una piazza di cui ci si dimentica il nome ufficiale, perché per tenere viva, insieme alla memoria, l’indignazione e la passione qui la gente ha deciso di ribattezzarla “Piazza Ciro Principessa”. Un nome, ed un volto che veglia ancora sulle vivaci riunioni di quartiere, indipendenti e combattive, così come le madonnine delle edicole: da un lato e dall’altro della piazza, scorre la strada, e lungo di essa il bisogno di riconoscersi, di radicarsi, di curare se stessi insieme a lei, di proteggerla e rivendicare il diritto a viverla, insieme, a condividerla. Da un paese sembra provenire l’aria quasi di famiglia che si respira, nel cuore di uno dei quartieri più caotici di una grande metropoli: con i suoi silenzi nelle ore notturne e del primo pomeriggio, interrotti dallo sferragliare dei treni sui binari poco distanti e dal tuonare degli aerei che in modo surreale volano troppo bassi, dal canto del gallo e degli uccellini. Di un paese è la sensazione quando lo sguardo si perde rincorrendo i gatti che saltano sornioni di tetto in tetto, che sostano lungo la via nelle loro regali e e fiere pose, davanti alle case spesso ad un piano, raramente più alte di due piani, con i loro terrazzini e i panni stesi, i giochi dei bambini abbandonati in attesa, piene di voci che invadono la strada, voci che intrecciano spensieratezza ad irrequietezza, e ricordi di paesi lontani che qui giungono per ricominciare. Voci, ed odori, che abitano l'aria, dalla trattoria romana in cui campeggiano bandiere del Che all’imperante soffritto della cucina bangladese e cinese che ti accoglie all’angolo, mentre nel via vai, ora lento, ora più frenetico odori e voci si concentrano a lungo, insieme ai volti ed ai gesti che li rendono movimento e storia, davanti al tabacchino, al bar, dove l’anziana signora la mattina fa colazione in vestaglia e si siede, serena, ad aspettare qualcuno, o la sera davanti a Chourmo, l’enoteca che da Marsiglia prende il suo nome: “per finirci dentro non c’era bisogno, come secoli fa, di aver ucciso il padre o la madre. No, oggi basta essere giovani, immigrato o non..lo scopo di Chourmo era che la gente si incontrasse, si immischiasse, degli affari degli altri e viceversa”. E la gente si immischia negli affari che diventano di tutti quando c’è da rivendicare l’area pubblica che il comune ha voluto trasformare in un parcheggio e che la musica e le cene organizzate di tanto in tanto riaprono alla comunità, come accade, sempre e ancora in piazza Ciro Principessa. “Esisteva uno spirito Chourmo. Non eri di un quartiere, di una città. Eri Chourmo, nella stessa galera, a remare. Per uscirne fuori insieme”. O per rimanerci, dentro, anche quando così apparentemente “diversi”, e “stranieri”, insieme.

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